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LA COSTRUZIONE DEL
CASTELLO
Lo scrittore di storia Paolo Giovio, nato a Como il 1483 e morto a Firenze il 1552, scrisse nella sua opera dal titolo “Vita dei dodici Visconti” che Bernabò Visconti verso il 1350 edificò sulla riva del fiume Lambro, nella terra di Marignano, una grandissima casa simile a una forte rocca ed un ponte in mattoni. Il “receptum” costruito cento anni prima fu ampliato con lavori imponenti da Bernabò Visconti, il quale si fermò molte volte in Melegnano: basti dire che dal 1347 al 1378 da Melegnano egli spedì sessanta lettere che erano dirette ai capitani di ventura, agli amministratori milanesi, a diverse persone per ringraziamento di favori ottenuti, oppure riportavano notizie di battaglie, questioni giuridiche civili o penali, atti politici, ordini ai suoi podestà. Le lettere partite dal castello di Melegnano, scritte da Bernabò, erano dirette ad una vasta categoria di persone residenti in diverse località che, in ordine di successione di data, furono queste: Canossa, Ungheria, Spagna, Brescia, Cremona, Parma, Verona, Padova, Ferrara, Germania, Venezia, Mirandola, Treviglio, Reggio Emilia, Bologna, Savoia, Monferrato. Inoltre Bernabò concedeva alla sua concubina Donnina de’ Porri di vivere a lungo nel castello di Melegnano, come prova del suo amore, volendo che nel castello non le mancasse nulla. IL CASTELLANO Alla custodia del castello era preposto il castellano, un uomo scelto sempre fra gli ex militari di speciale competenza e che aveva reso preziosi servizi politici, soprattutto un uomo che godeva della massima fiducia e che dava prova di indiscussa fedeltà. La nomina del castellano era sempre “ad beneplacitum” cioè secondo la sola volontà del signore visconteo, senza limiti di tempo, in modo che la stessa persona poteva essere incaricata per molti anni e talvolta anche per tutta la vita. Alla morte di un Visconti però occorreva la conferma del successore. Il castellano aveva con sé in castello i suoi familiari più intimi che lo aiutavano, oppure alcuni dipendenti stipendiati regolarmente. La nomina del castellano era accompagnata dal deposito di un contrassegno. Cioè, il castellano riceveva un segno caratteristico che era il sigillo o un timbro con un particolare disegno: era il segno segreto tra lui e il duca, quasi come una parola d’ordine. Soltanto a chi presentava quel segno il castellano poteva e doveva aprire il castello. Il castellano, con sincera fedeltà e continua vigilanza, doveva tenere, custodire e governare il castello in nome del duca. Non doveva mai consegnare il castello ad alcuna persona, tranne a chi aveva documenti sicuri. Non poteva mai uscire dal castello né di giorno né di notte e non poteva introdurre mai più di due persone alla volta. Tra i suoi doveri principali vi erano quelli di fare la guardia alle munizioni e quello di badare che nei magazzini del castello vi fossero provviste bastanti per un anno, per diverse persone, in previsione di un assedio. |
Tra i prodotti da ammassarsi in castello erano farina, vino, aceto, olio, legumi secchi, formaggio, carne salata, candele, calze e scarpe. Tra i primi castellani nominati da Bernabò Visconti appare il nome di Nicarolo Cavazia nel 1368. E poi, per tutto il 1400 e per i primi anni del 1550, vi è una lunga serie di castellani custodi del castello di Melegnano. |
LA FINE DI GIAN GALEAZZO IN CASTELLO
Il 6 maggio 1385 Bernabò fu catturato dal nipote Gian Galeazzo e fatto rinchiudere nel castello di Trezzo dove trovò dopo poco tempo la morte; Gian Galeazzo rimase il signore incontrastato di Milano e dei suoi territori. Questo nipote, con azioni spregiudicate, con astuzia politica, con decisione propria della sua indole, essendo padrone di vaste terre dell’Alta Italia, meditava di occupare la Toscana, probabilmente per unificare una parte dell’Italia sotto di lui. Dall’imperatore era stato riconosciuto come suo vicario; inoltre Gian Galeazzo aveva ricevuto il titolo di “duca” un titolo che porteranno tutti i suoi discendenti, e infine venne elevato a principe dell’impero, così che entro lo stemma dei Visconti fu disegnata anche l’aquila imperiale. Mentre era in atto la conquista della Toscana, dopo che Gian Galeazzo ebbe conquistato Pisa, Siena, Perugia, Assisi, Spoleto e Lucca, preparandosi all’assalto finale contro Firenze, ecco la peste, il terribile male che non perdonava. Gian Galeazzo cercò di fuggire dal pericolo di contagio avendo ritenuto che il clima di campagna aperta intorno a Melegnano fosse una difesa sicura. Si ritirò nel suo castello di Melegnano, ma qui si manifestarono più evidenti i segni della funesta malattia. La peste aveva colpito anche Gian Galeazzo: il 3 settembre 1402 tra le grosse mura del castello di Melegnano morì all’età di cinquantun anni il grande condottiero e con lui morirono i sogni di gloriose conquiste (Matteo Palmerio, Liber de temporibus ad annum 1402:”Galeatius Mediolanensis dux, continuans adhuc per suos duces in Florentinum Bellum, apud Marignanum mediolanensis agri oppidum moritur”). Nel 1405 Giovanni Maria Visconti, che aveva ricevuto il titolo ducale sulla signoria di Lodi, Milano, Melegnano, Cremona, Piacenza, Bobbio, Parma, Reggio, Bergamo, Brescia, Como, Siena e Perugia, ebbe necessità di denaro e fu costretto a cedere il castello e il paese di Melegnano a Galeazzo di Grume/lo che gli aveva prestato i soldi. Successivamente il Visconti dovette aprire il prestito pubblico per farsi dare dai cittadini milanesi quanto occorreva per ricuperare sia il castello, sia il paese. FACINO CANE CONQUISTA IL CASTELLO Alla morte di Gian Galeazzo i territori del ducato furono divisi tra i figli. Ma le incertezze politiche, le gelosie e i disaccordi crearono un clima di anarchia: i figli di Gian Galeazzo, assai giovani, lasciarono la reggenza del ducato alla loro madre Bianca Maria, la quale si era circondata di buoni consiglieri. Tuttavia, sotto l’incalzare delle divisioni sociali aspre e bellicose che si erano formate nel popolo milanese diviso in partiti, infuriò la guerra civile. Il condottiero e capitano di ventura Facino Cane approfittò del disordine per occupare Alessandria, Piacenza, Novara, Tortona e diventando conte di Biandrate. Costituitosi così un dominio molto vasto, Facino Cane si alleò con Teodoro II° del Monferrato e con Astorre e Francesco Visconti per assaltare Milano, obbligando il duca Giovanni Maria Visconti a cedergli il governo effettivo che consolidò con la presa anche di Pavia. Il 25 maggio 1410 Facino Cane stipulò una tregua di un mese con il signore di Lodi e con il castellano di Melegnano, Filippino di Desio, che si era poco prima ribellato al duca. Nell’ottobre Facino Cane aveva deciso di ricuperare Melegnano. I fratelli Filippino, Antonio e Maffiolo di Desio, dimoranti in castello, avevano consegnato lo stesso castello a Pandolfo Malatesta, uno dei pretendenti al dominio e che, con il possesso del castello di Melegnano, veniva ad avere una base di operazione contro Milano a poca distanza delle mura. Il 16 ottobre fu annunciata la spedizione di Facino Cane per conquistare il castello di Melegnano. Ma la spedizione non si mosse. Passarono tredici mesi. Soltanto nel dicembre 1411 Facino Cane scese di nuovo in campo, attaccò Melegnano, lo conquistò, e la conquista fu festeggiata a Milano il I°gennaio 1412 con festeggiamenti solenni e con luminarie. DA FILIPPO MARIA VISCONTI ALLA REPUBBLICA AMBROSIANA Pochi mesi dopo, Facino Cane, che aveva governato buona parte del ducato al fianco di Filippo Maria Visconti, venne a morte in Pavia. Fu una schiarita politica e amministrativa: Filippo Maria Visconti come legittimo erede si fece proclamare duca di Milano e si diede a restaurare e a consolidare il ducato. Filippo Maria, due anni dopo, il 10 aprile 1414, concesse ai suoi parenti, in feudo, le terre di Melegnano, di Bascapè, e di Belgioioso con le frazioni circostanti. Nell’istrumento notarile si nominano le località di Calendrano, Cascine di Melegnano con la specifica delle proprietà comprendenti le case e fondi sui quali le case si trovavano, i torchi, le colombaie. Ma è ben specificato che da tutte le proprietà concesse in feudo è escluso il castello con la frase ben chiara in latino excepto castro, che vuol dire precisamente: eccettuato il castello. Filippo Maria Visconti morì il 13 agosto 1447 a cinquantacinque anni, ultimo duca della famiglia Visconti, non avendo avuto figli maschi. Alla sua morte alcuni professionisti milanesi di ricche famiglie - i Bosii, i Cotta, i Lampugnani, i Moroni, i Trivulzio - crearono una nuova forma di governo per Milano: l’Aurea Repubblica Ambrosiana. Presto affiorarono però grosse difficoltà: gravi discordie all’interno, invasione dei Veneziani fin sotto le mura di Milano. Le circostanze politiche convinsero i reggenti della Repubblica a concedere il comando militare al capitano di ventura Francesco Sforza. Nell’armata di Francesco Sforza stava come capitano Francesco Piccinino, figlio del più famoso Jacopo. Nel suo intimo il Piccinino odiava il comandante supremo Francesco Sforza per gelosia di mestiere e per aspirazione alla carica suprema. E proprio in questo periodo il capitano Francesco Piccinino aveva la sede delle truppe in Melegnano. Nel tentativo di organizzare lo stato di Milano, gli uomini politici tenevano segreti contatti con i Veneziani all’insaputa dello Sforza. Ma questo capitano, attento ad ogni mossa, anticipò i politici e fu lui ad entrare in trattative con i Veneziani: il suo gesto fu interpretato come un tradimento ed in tal modo gli fu tolto il comando supremo militare di Milano. Lo Sforza reagì passando all’attacco contro Milano e i politici diventati suoi nemici. |
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